Capitolo XXIV
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NICCOLò MACHIAVELLI

Principe - Capitolo XXIV

Riassunto

Machiavelli dedica questo capitolo alle ragioni che hanno portato molti principi italiani a lui contemporanei a perdere i propri stati. Al proposito porta come esempi il re di Napoli e il duca di Milano e a questi due principi contrappone la figura di Filippo V, re di Macedonia, capace di tener testa, grazie alle sue virtù, a regni molto più grandi del suo, come quello romano e quello greco.

L’autore conclude il capitolo con una critica a quei principi che, nei tempi di quiete, non hanno saputo prevedere e prevenire le situazioni avverse che si stavano preparando all’orizzonte.

Commento contenutistico

Il brano analizzato è il ventiquattresimo capitolo del “Principe”, celebre trattato politico scritto all’inizio del’500 da Niccolò Machiavelli, durante il suo esilio volontario all’Albergaccio.

L’autore introduce il capitolo ribadendo che gli insegnamenti contenuti nel suo libro mirano essenzialmente ad indicare la strada per la creazione di un principato nuovo. Egli si concentra soprattutto su questa tipologia di regno, poiché per tutta la vita ha sperato che un grande principe riuscisse a riunire tutta la penisola italiana in un unico stato nuovo, appunto, e con la sua opera si propone di creare una specie di “guida” che sia utile al principe per raggiungere questo scopo.

A partire dal secondo capoverso, Machiavelli inizia a parlare concretamente delle cause che hanno portato i principi italiani a perdere i loro stati. Al riguardo propone due esempi: Federico d’Aragona, re di Napoli, detronizzato nel 1501, e Ludovico il Moro, scacciato da Milano nel 1499, dopo la discesa in Italia di Carlo VIII, re di Francia.

In entrambi i casi Machiavelli propone la stessa causa che ha portato questi due principi a perdere il potere: entrambi mancavano di milizie fedeli e preparate che riuscissero a difendere il loro regno, e probabilmente mancavano anche dell’appoggio del popolo o meglio ancora della potente aristocrazia, che avrebbe davvero potuto fare la differenza.

Secondo Machiavelli, infatti, il popolo dovrebbe temere il suo principe, ma non del tutto odiarlo. Dovrebbe vedere in lui una figura forte e a volte violenta, ma sempre capace di garantire pace e stabilità al suo regno.

Per sostenere questo suo argomento, come sempre, Machiavelli propone come esempio la figura di Filippo V re di Macedonia. Egli, infatti, essendo uomo pratico di armi e capace di intrattenere il popolo e di assicurarsi il favore dei potenti, riuscì a mantenere il controllo del suo regno nonostante si fosse trovato a fronteggiare civiltà, come quella romana o greca, che erano molto più grandi della sua.

In questo suo continuo ricercare modelli nella storia passata, Machiavelli dimostra chiaramente la sua forte inclinazione rinascimentale.

Nell’ultimo capoverso di questo capitolo, Machiavelli enuncia invece il rapporto che, secondo la sua mentalità, esiste tra “fortuna” e “virtù”. Al riguardo egli ha una concezione molto differente da quella sostenuta da Ariosto, secondo cui la fortuna, intesa come fato, si trova e agisce al di fuori delle possibilità dell’uomo, che non può far altro che rimanere inerme e subire tutto ciò che gli accade.

Per Machiavelli questo non è assolutamente vero: un uomo e quindi un principe virtuoso deve essere in grado di opporre forza al fato avverso, prevedendolo e limitando le sue conseguenze negative. I principi italiani che hanno perso il loro regno, quindi, non devono incolpare la cattiva fortuna, bensì la loro stessa ignavia.

Un principe virtuoso, per concludere, non è colui che cade sperando di essere raccolto, ma è quello che conta sempre sulle proprie forze e si difende attraverso la sua virtù e non per mezzo dell’aiuto degli altri.

Commento stilistico

Lo stile utilizzato è, come in tutto il Principe, semplice e pratico, mentre nel linguaggio sopravvivono ancora alcuni latinismi e alcuni costrutti, come quelli retti da participi, che ricordano molto la lingua latina.

La sintassi risulta leggermente più ipotattica di quella utilizzata nei capitoli precedenti, soprattutto nell’ultima parte del brano.

Nonostante si tratti di prosa, lo stralcio presenta un’anafora: la ripetizione del “perché” causale all’inizio di ben cinque frasi; inoltre ho rilevato la presenza di una metafora alle righe 26 e 27: “è comune difetto degli uomini, non fare conto nella bonaccia della tempesta”, dove “bonaccia” sta per “tempi di pace”, mentre “tempesta” sta per “tempi travagliati, di crisi”.