La parentesi idillica di Erminia
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TORQUATO TASSO

Gerusalemme liberata – La parentesi idillica di Erminia

Parafrasi riassuntiva

Erminia ha assistito al duello tra Argante ed il suo amato Tancredi ed è angosciata nel saperlo gravemente ferito. Sul far della notte l’eroina esce da Gerusalemme vestita delle armi di Clorinda per raggiungere l’uomo che ama e per curarlo. Tuttavia viene scoperta da una pattuglia di crociati ed è quindi costretta a darsi alla fuga nella foresta. Dopo una notte ed un giorno di fuga tra urla e pianti, Erminia giunge al tramonto sulla riva del fiume Giordano dove, scesa da cavallo, si addormenta. Il mattino seguente si sveglia e viene attirata dal dolce suono del canto dei pastori, accompagnato dalle zampogne. Erminia si avvicina e vede un uomo canuto impegnato ad intrecciare ceste di vimini, circondato dalla sua gregge e da tre fanciulli che cantano. L’eroina saluta gentilmente e inizia a dialogare con il pastore, a cui confessa tutte le proprie sventure. Attirata dalla vita pastorale e sperando che possa dare fine ai suoi dolori, Erminia decide di chiedere ospitalità al vecchio pastore che acconsente.

Commento contenutistico

Il brano analizzato è il VII canto tratto dalla “Gerusalemme liberata”, poema epico-cavalleresco composto da Torquato Tasso nella seconda metà del ‘500.

L’opera tratta un tema molto discusso al tempo in cui è stata redatta: lo scontro tra Cristiani ed Infedeli. La seconda metà del ‘500, infatti, vedeva Costantinopoli sotto il dominio dei Turchi e si discuteva se fosse opportuno o meno organizzare una nuova crociata. Inspirato da questo teso conflitto, Tasso, a soli diciotto anni, iniziò a comporre la sua più celebre opera: la “Gerusalemme liberata”.

In questo brano Tasso presenta la giovane Erminia, che, dopo la guerriera Clorinda e la seduttrice Armida, viene considerata la terza eroina pagana. Erminia, principessa di Antiochia, era figlia del re di quella città e quando Antiochia era stata espugnata, ella era divenuta prigioniera dei cristiani ed era stata consegnata a Tancredi, principe normanno. Costui si era mostrato talmente gentile e generoso da concederle la libertà perduta. Per tale insperato dono e per il fascino del guerriero, la fanciulla si era innamorata di Tancredi.

L’amore di Erminia è un amore virginale e sofferto: è un sentimento non corrisposto, poiché Tancredi è innamorato di Clorinda, ed ostacolato da mille complicazioni; ma la fanciulla rimane fedele fino alla fine senza mai cedere a ripensamenti.

Il brano si apre con la fuga di Erminia nel bosco che richiama chiaramente il tema della fuga utilizzato con frequenza da Ariosto nell’”Orlando furioso”. Erminia che fugge in preda a lacrime e paure ricorda molto Angeliche che, analogamente, fuggiva nel fitto del bosco sperando di allontanarsi dall’odiato Rinaldo.

Erminia appare qui com’è veramente: una donna ingenua e pudica, innamorata e pronta a sfidare tutto pur di stare accanto all’uomo che ama. La passione la muove ad osare l’impossibile, la sprona su sentieri mai percorsi e su strade piene d’insidie.

Spinta dal timore, la fanciulla continua a fuggire senza aver neanche il coraggio di guardarsi alle spalle e dopo una notte ed un giorno di fuga continua, non vedendo, né udendo nient’altro che le sue grida e i suoi lamenti, decide di fermarsi. Erminia è giunta infatti presso la riva del fiume Giordano dalle “chiare acque” ovvero nel tipico ‘locus amoenus’, già presente nel poema di Ariosto. Qui, non avendo né fame né sete, poiché lacrime e dolori sono ora il suo nutrimento, Erminia si addormenta e nel sonno (“dolce oblio posa e quiete de’ miseri mortali”), sebbene disturbato a tratti da Amore, la fanciulla riesce finalmente a trovare un po’ di tranquillità.

Quando Erminia si sveglia, la mattina dopo, il ‘locus amoenus’ si svela in tutta la sua bellezza: il lieto “garrir degli augelli”, il “mormorar del fiume e degli arboscelli”, il lieve venticello che scherza con l’onda del fiume e con i fiori circondano la fanciulla in uno sfondo che sembra piuttosto fiabesco.

A questo punto Erminia comincia a sentire un “chiaro suon” di “pastorali accenti”. Alzandosi in piedi, la fanciulla si dirige a passi lenti verso il luogo da cui il suono proviene, scoprendo così un “uom canuto” impegnato ad intrecciare ceste di vimini, circondato dal suo gregge ed allietato dal canto dei suoi tre figli. È a partire da questo punto che Tasso esprime il suo gusto per la lirica pastorale, un genere poetico che celebrava la vita di campagna, lontana dall’iniquità della società umana.

Erminia saluta cortesemente il pastore, spronandolo a continuare la sua opera, perché tale lavoro è buono agli occhi divini; al contrario della guerra e delle armi che non sono viste più con compiacimento, come in Ariosto. La guerra è per Tasso una triste necessità che porta solo morte e dolore.

Dopo aver salutato, Erminia chiede al pastore come faccia a non temere attacchi dalle milizie che stanno combattendo una guerra poco lontano. Egli risponde chiamandola “figliolo” poiché crede ancora che sia un ragazzo: Erminia infatti indossa ancora l’armatura di Clorinda.

Inizia ora un lungo monologo in cui il pastore racconta di sé e della sua vita. Prima di tutto egli risponde alla domanda dicendo che la sua famiglia e le sue greggi in quel luogo sono sempre state al sicuro da ogni oltraggio e scontro. Il pastore ringrazia il Cielo per la sua vita umile e frugale che per molti è vile, ma che ai suoi occhi è così cara che non bramerebbe in cambio alcun tesoro o scettro. In questo ambiente idillico e pastorale la pace regna indisturbata: ci si può dissetare nell’acqua limpida senza timore che sia aspersa di veleno ed è possibile vivere dei beni prodotti dal gregge e dall’orto senza bisogno di comprare cibarie al mercato.

Il vecchio racconta poi che in passato, quando era giovane, rifiutando la vita pastorale, era fuggito dalla sua terra natale e aveva vissuto nella corte di Menfi, riuscendo a diventare un ministro del re. Benché fosse solo consigliere agricolo, egli aveva presto conosciuto l’iniquità, la corruzione e l’ingiustizia che regnano in tutte le corti, finendo per rimpiangere la vita umile che aveva abbandonato. Avendo compreso che presso la corte non avrebbe mai trovato la pace, il pastore aveva detto addio alla corte e se ne era tornato tra i familiari boschi, dove aveva ritrovato la felicità.

In queste poche ottave emerge uno degli aspetti del bifrontismo tassesco, ovvero il rapporto del poeta verso la corte. Si tratta di un rapporto contraddittorio: con la sua opera, infatti, il Tasso puntava da una parte a celebrare la corte, poiché attratto da quello che credeva fosse il pubblico adatto a comprendere la sua poesia. Dall’altro lato, però, Tasso dimostra di avere un forte conflitto nei confronti della società cortese, accusata di essere iniqua ma anche rigida e artificiosa.

Erminia quindi, pende dalla bocca di questo uomo, le cui sagge parole giungono al suo cuore fino ad acquietare almeno in parte le sue tempeste interiori. Dopo aver a lungo pensato, Erminia decide di restare in quel luogo solitario almeno il tempo necessario affinché la fortuna torni dalla sua parte e fa perciò la sua richiesta di ospitalità al vecchio, narrandogli poi, tra le lacrime, parte delle sue sventure. Piena di umanità risulta qui la figura del pastore che, comprendendo i dolori e le passioni della povera fanciulla, si immedesima a tal punto da unirsi al suo triste pianto per poi consolarla dolcemente e accoglierla come farebbe un padre con sua figlia.

Inizia a questo punto la vita bucolica di Erminia, la cui bellezza non viene offuscata neanche dalle “rozze spoglie” di cui “s’ammanta”. Questa nuova vita, però, non sembra dare pace all’animo della fanciulla che prende invece ad incidere sulla corteccia degli alberi il nome dell’amato Tancredi ed i suoi travagli interiori, rileggendo i quali non può fare a meno di scoppiare in amare lacrime. L’incisione di parole sulla corteccia degli alberi non è un motivo nuovo; richiama infatti le figure di Angelica e Medoro dell’”Orlando furioso” che, follemente innamorati, avevano riempito le cortecce degli alberi intorno al luogo in cui avevano consumato il loro amore con i propri nomi.

Il brano si conclude con i tristi pensieri di Erminia che spera che un giorno Tancredi si imbatta in quel luogo, legga le sue scritte e possa finalmente rivolgere un pensiero e forse una lacrima alla povera fanciulla, morta di dolore per l’amore non corrisposto.

Commento stilistico

Essendo un poema epico, la metrica utilizzata da Tasso nella “Gerusalemme liberata” è quella fissata dalla tradizione: si tratta infatti di ottave endecasillabe scandite da uno schema rimico di tipo ABABABCC.

Lo stile utilizzato da Tasso è elevato e classicheggiante e ricalca perciò quello utilizzato da Virgilio nell’Eneide, a cui infatti si ispira.

La sintassi risulta complessa, anche perché il verbo viene spesso posto alla fine della frase, come nella lingua latina.

Per quanto riguarda il lessico, esso risulta molto elevato, come è elevato il genere trattato dall’opera stessa.

Le figure retoriche utilizzate, piuttosto numerose, sono le seguenti:

- ALLITTERAZIONE: delle consonanti R e S in tutta la prima ottava

                                 “Fuggì tutta la notte e tutto il giorno” (3,1)

                                 “che non bramo tesor né regal verga” (10,2)

                                 “il pietoso pastor pianse al suo pianto” (16,8)

- ENUMERAZIONE: “Non si destò fin che garrir gli augello non sentì lieti e salutar gli albori, e  

                                mormorar il fiume e gli arboscelli, e con l’onda scherzar l’aura e co’ fiori.” (5,1/4) = polisindeto

                               “e disdegnai di pasturar la greggia; e fugii dal paese a me natio, e vissi in 

                                Menfi un tempo, e ne la reggia fra i ministri del re fui posto anch’io, e benchè 

                                fossi guardian de gli orti vidi e conobbi pur le inique corti” (12,3/5) = polisindeto e climax ascendente.

- INVERSIONE: “né cura o voglia ambiziosa o avara mai nel tranquillo del mio petto alberga” (10,3) = anastrofe

                         “ed ascoltan di tre fanciulli il canto” (6,8) = anastrofe

- SIMILITUDINE: “Qual dopo lunga e faticosa caccia tornansi mesti ed anelanti i cani che la fera 

                               perduta abbian di traccia,[…] tal pieni d’ira e di vergogna in faccia riedono 

                               stanchi i cavalier cristiani.” (2,1/6) = i cavalieri cristiani che inseguono Erminia 

                                vengono paragonati a cani che, avendo perduto la preda, si ritirano tristi e    

                                ansimanti per la vana rincorsa.

                             “sì come il folgore non cade in basso pian ma su l’eccelse cime, così il furor di 

                              peregrine spade sol di gran re l’altere teste opprime” (9,3/6) = così come il 

                               fulmine non cade in pianura, ma sulle cime più alte, allo stesso modo il pensiero 

                               della guerra opprime solo le menti dei re, lasciando immuni le persone umili.

- METAFORA: “ne l’ora che ‘l sol dal carro adorno scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida” (3,5/6) = si riferisce al tramonto

                      “’l sonno […] l’ali dispiegò sovra lei placide e chete” (4,3/6) = il sonno è come un uccello che dispiega le sue ali sopra di Erminia

                      “d’alto incendio di guerra arde il paese” (8,2) = la guerra è come un fuoco

- METONIMIA: “languidi lumi” (5,5) = si riferisce agli occhi di Erminia

                         “strepito di Marte” (8,7) = Marte sta per guerra

- PERSONIFICAZIONE: “e mormorar il fiume e gli arboscelli, e con l’onda scherzar l’aura e co’ fiori.” (5,3/4)

                                      “gli amici boschi” (13,7/8)

- IPERBOLE: “fonti di pianto da’ begli occhi elice” (22,6)